L’Italia e gli italiani non sono riusciti molto bene

Vicenza – “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa la famosa frase associata dai più a Massimo d’Azeglio, per significare che, per quanto l’Italia geograficamente e politicamente nel 1861 risulti unita, in essa regneranno sempre culture, tradizioni e lingue (dialetti) diversi tra loro. Bruno Bozzetto, il famoso cartoonist ha ironizzato così.

L’unità avvenne sotto l’egida di Casa Savoia. Una dinastia di forte impronta militare, che necessitava, come fu per Bonaparte, della compagine statale più vasta possibile per attingervi carne da cannone ed accreditarsi tra le grandi teste coronate d’Europa. L’assetto federale, o meglio confederale (l’unico sensato) che volevano Gioberti e Cattaneo fu dunque sacrificato a nient’altro che alle sfrenate ambizioni belliche ed accentratrici dei Savoia, non ad altro. 

Vittorio Emanuele II di Savoia, protagonista dell’unità d’Italia, passa alla storia con l’appellativo con cui è ricordato tutt’oggi di Re galantuomo o Re gentiluomo. Ma nell’ex regno delle due Sicilie hanno maturato una diversa opinione. E a supporto comincia a emergere una copiosa letteratura che sostiene come l’esercito di sia comportato come le SS hitleriane. Vedasi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni (ad  opera del vicentino luogotenente colonnello Pier Eleonoro Negri) che fu una strage di rappresaglia compiuta dal Regio Esercito italiano ai danni della popolazione civile dei due comuni, in data 14 agosto 1861.

Secondo una fonte del tempo le popolazioni si erano in realtà vendicate di violenze e soprusi commessi in precedenza dagli stessi soldati. I due piccoli centri vennero quasi rasi al suolo, lasciando circa tremila persone senza dimora. Il numero di vittime è tuttora controverso, ma Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella riportano che alcuni autori lo stimano compreso fra il centinaio e il migliaio.

Umberto I, che gli succedette, fu soprannominato “Re Buono”, ma fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo, il suo indiretto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana, l’avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898, e l’onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per la sanguinosa azione di soffocamento delle manifestazioni del maggio dello stesso anno a Milano, azioni e condotte politiche che gli costarono almeno tre attentati nell’arco di 22 anni, fino a quello che a Monza, il 29 luglio 1900, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, gli sarà fatale.

Vittorio Emanuele III (secondo una valutazione politica personale è il più tristo, deleterio e ignobile di tutti) lo sostituì, e per la sua statura si guadagnò il soprannome (poco regale) di “Sciaboletta”; ma anche altri quali “il Gobbo”, “il Re Numismatico”, «Re soldato», e dai fascisti di Salò il “Re Fellone”. Per accasarlo ci fu una vera e propria “congiura”, alla quale parteciparono praticamente tutte le case regnanti europee. Infatti nessuno voleva rischiare di dovergli dare in dote una figlia. Meglio dirottare su Nicola del Montenegro che era poco più di un principe-pastore, e l’unico ad esserne all’oscuro fu proprio il giovane Principe. Il matrimonio tra Vittorio ed Elena del Montenegro si celebrò il 24 ottobre 1896. Gli italiani debbono essergli grati per essere stati trascinati in due guerre mondiali inframmezzate dal ventennio fascista, più l’optional della guerra civile, e qualche altra guerricciuola qua e là.  

Umberto II, chiude la serie, in quanto per il breve regno (poco più di un mese), è anche detto “Re di Maggio”. Fu la figura più triste e sventurata: non aveva i “meriti guerrieri” dei suoi predecessori, e si trovò schiacciato dal contesto di fine della seconda guerra mondiale. Insomma una dinastia improntata sulla distruzione dell’unica economia dell’epoca, quella agricola, con la tassa sul macinato e la coscrizione obbligatoria, proprio come Napoleone. Guerre (tre di “indipendenza” per l’unità del regno), tasse ed emigrazione. Guerra di Abissinia (1895-1896), partecipazione persino alla repressione della rivolta dei Boxer in Cina (1900), guerra di Libia (1911-1912), prima guerra mondiale, guerra di Etiopia (1935–1936) guerra di Spagna (1936-1939), infine la seconda guerra mondiale. 

Per comprendere l’«atmosfera» del secondo dopoguerra, è utile sentire l’opinione di Massimo Caprara, per 20 anni segretario di Palmiro Togliatti, nell’intervista di Stefano Lorenzetto fatta per “Il Giornale” del 25 aprile 2004, intitolata «Io, segretario di Togliatti, vi dico che fu il Peggiore», dichiarò: 

D. – È vero che il 10 giugno 1946 Togliatti, ministro della Giustizia, bloccò la proclamazione dell’esito del referendum monarchia-repubblica perché non era sicuro d’aver vinto?
R. – «Certamente la Repubblica è nata con un parto cesareo. L’ostetrico fu Toglìatti, aiutato da Marcella Ferrara e da me. Il computo dei voti veniva fatto al ministero della Giustizia, non so se mi spiego… Eravamo efferati, ma non stupidi. I passaggi più delicati li ho visti tutti».
D. – Sta confermandomi i brogli?
«Le dico solo questo: avevamo fatto stampare più schede del numero dei chiamati alle urne. In caso di necessità…». [e più avanti prosegue…]
D. – Fra gli ex comunisti che oggi guidano i Ds, chi assomiglia di più a Togliatti?
R. – «Massimo D’Alema. Infido. Ingrato. Concorrenziale. Non vorrei stare nei panni di Fassino e di Prodi. È uno di cui bisogna aver paura».
D. – Non a caso il senatore Giuseppe D’Alema, suo padre, disse a un mio amico che lavorava all’Istituto Gramsci: «A volte mio figlio mi fa paura»…
R. – «Non stento a crederlo. Ha la stessa cupidigia di potere, la stessa superbia intellettuale, la stessa cinica freddezza di Togliatti: il partito siamo noi, il partito deve vincere».

Insomma, in tutto questo lasso di tempo “buio” erano pochi coloro ch’erano stati educati dalle suore orsoline. E gli albori della repubblica italiana furono contrassegnati anche dalla disinvoltura di molti altri protagonisti della scena pubblica. A cominciare dal primo capo provvisorio della nuova repubblica, l’avvocato Enrico De Nicola, il quale per tutto il ventennio aveva fatto distintamente parte della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, eletto e rieletto con voti fascisti, e naturalmente percependo senza fiatare emolumenti e privilegi. Erano tempi torbidi e spigliati, e per entrare in quell’atmosfera facciamo due soli esempi:

Il colonnello Malgeri ed i suoi eroici finanzieri, prima aveva servito fedelmente “Re Sciaboletta”, poi il Duce, poi Salò (fino al 24 aprile), appunto sequestrando i beni dei renitenti e dei partigiani alla macchia, fermando e consegnando ai tedeschi i poveri cristi che tentavano di passare il confine svizzero, e poi la mattina del 26 aprile si scoprì «partigiano» dando l’assalto alla prefettura, dove i superstiti repubblichini non vedevano l’ora di arrendersi ed anche loro cambiar casacca pur di aver salva la vita e gli averi. E tutto agli «eroici» è andato benissimo, niente domande sul passato e medaglie e premi inclusi, perché si sa che ogni governo di tutti i colori ha poi bisogno di quelli che spremono per incassare i tributi dal popolo bue.

L’altro esempio di “duttilità” è Davide Lajolo. Fa carriera all’interno del PNF. Nel 1943 lascia il servizio militare perché viene nominato vice Segretario federale del PNF di Ancona. Manterrà tale carica fino alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Un cambiamento radicale che lo porterà in seguito a sconfessare i suoi trascorsi giovanili, giunge l’8 settembre 1943, e ritorna al paese natio, dove prende la tormentata decisione di passare alla lotta partigiana sulle colline astigiane, con il nome di battaglia di Ulisse. Tracce di questa conversione, definita da lui stesso “voltar gabbana“, si trovano in “Classe 1912 (del 1945, ristampato nel 1975 e nel 1995 con il titolo “A conquistare la rossa primavera) e ne “Il voltagabbana (1963), in cui l’autore analizza le ragioni che lo portarono a schierarsi, dopo una giovinezza fascista, dalla parte della Resistenza.

Per carità, questa viltà non fu solo italiana, è stata propria anche di altri che poi si sono atteggiati a  «vincitori», ma questa è un’altra storia. Questi sono solo alcuni esempi di italiani. E chi sogna una nuova entità istituzionale autodeterminata dovrebbe prima preparare una classe dirigente che risulti vaccinata dal trasformismo, altrimenti i veneti (per esempio) si ritroveranno con “er pomata” che continuerà a galleggiare sul suo presenzialismo (non in Consiglio Regionale, beninteso!) e fluente eloquio. 

Coloro che pensano all’autonomia dovrebbero mettere a fuoco il contesto storico di allora. E se non giustificare, come si fa a non comprendere l’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (Evis) che nacque nel febbraio 1945 a Catania, su impulso di Antonio Canepa, come gruppo di lotta armata, ma anche primo nucleo di quello che sarebbe dovuto diventare l’esercito regolare di una Repubblica Siciliana, in risposta alle continue violenze che venivano perpetrate dalle forze dell’ordine italiane ai danni di sedi ed esponenti del Movimento Indipendentista Siciliano (Mis), anche sulla scorta di fatti di sangue, come ad esempio la strage del pane, avvenuta a Palermo nell’ottobre 1944.

Quando “er pomata” sproloquia di autonomia del Veneto simile a quella dell’Alto Adige trascura di dire che fu frutto dell’accordo De Gasperi-Gruber (conosciuto anche come accordo di Parigi, Gruber-De-Gasperi-Abkommen in tedesco), così chiamato dai nomi degli allora ministri degli Esteri italiano (Alcide De Gasperi) e austriaco (Karl Gruber), fu firmato il 5 settembre 1946 a Parigi a margine dei lavori della Conferenza di pace, per definire la questione della tutela della minoranza linguistica tedesca del Trentino-Alto Adige.

Ma per ottenere l’uso dello Statuto “speciale” occorse l’attività di Georg_Klotz & Co.che è etichettato come terrorista e indipendentista sudtirolese, di cittadinanza italiana e tedesca (durante la seconda guerra mondiale). Passò alle cronache come il “martellatore della Val Passiria”. Egli fu responsabile di numerosi attentati dinamitardi in nome della “libertà del Südtirol”, per il quale si autodefiniva un combattente, un Freiheitskämpfer. Luca Zaia, governatore del Veneto, e i suoi colleghi leghisti fanno sorridere quando cianciano nei principali arenghi e sui mezzi d’informazione maistream di pretendere uno Statuto speciale come quello del Südtirol. Quello fu un accordo internazionale che senza l’«attivismo» di Georg Klotz & Co. e l’«occupazione» militare dell’El durata alcuni anni, non si sarebbe concretizzato.

Altri richiami impropri da parte di pseudo leader riecheggiano quando nei loro discorsi citano la Scozia, dimenticando la grande tradizione democratica del Regno Unito. Oppure l’appello all’indipendentismo catalano. In questo caso a prendere fischi per fiaschi sono ben due gruppi. Gli  autonomisti e gli indipendentisti:

  • Gli autonomisti dell’ultim’ora solo ieri erano indipendentisti. Oggi ripiegano sull’autonomia, anche se come passo intermedio all’autodeterminazione. Costoro prendono più abbagli, perché lo Statuto simile agli Alto Atesini i politicanti “romani” non lo concederanno mai; sia perché proprio la Catalogna insegna che approvato un nuovo Statuto nel 2006, secondo le procedure previste, sia dal Parlamento centrale sia dai cittadini catalani con un referendum, non entrò mai in funzione. Quello Statuto era frutto di un’intesa «bipartisan» fra socialisti e nazionalisti di Convergència i Unió (CiU), le due principali forze in Catalogna, con la benedizione del governo del socialista José Luis Zapatero. Su di esso pendeva però la spada di Damocle del ricorso del Partido popular (Pp). La sentenza n. 45/2008 della Corte constitucional fu dirompente: disse no a una serie di articoli ad alto valore simbolico, tra cui quelli che si riferivano alla Catalogna come a una «nazione» e al catalano come lingua preminente. Il mondo politico di Barcellona, con l’eccezione del Pp e di Ciudadanos, lo vide come un affronto e chiamò alla mobilitazione. Né miglior sorte ottennero i due referendum per l’indipendenza.
  • Cosa induca certi pseudo indipendentisti a pensare che l’Italia si comporterebbe più “magnanimamente” è cosa imperscrutabile. 

Semmai ci sarebbe da rispondere ad una domanda assillante: andare avanti, e quindi essere “creativi”, o restare nel passato, ovvero nel sistema partitocratico? Nessuno ha ancora dato risposte!

Immersi nella politica di piccolo cabotaggio dell’Italietta molti di questi politicanti sembrano anelare alle rendite politiche che tale modus operandi concretizza, non si sa ancora per quanto. E nessuno sembra

accorgersi delle opportunità che ci sono almeno in due paesi «in via di sviluppo». Si stanno proponendo come nuove forze dominatrici a livello mondiale: Cina ed India. Ed anche questi Stati (dove per altro l’ideale sovranazionale e globalista non esiste a favore di uno stretto nazionalismo imperialista) con popolazioni miliardarie e pure piuttosto turbolente, nonostante il governo autocratico, hanno necessità enorme e crescente di beni e servizi, non potendo con i soli strumenti finanziari virtuali soddisfare i bisogni ancora primari delle loro masse.

Insomma (come scritto più volte), sembra mancare all’idea auto deterministica un’Intelligencija capace di prefigurare nuovi meccanismi istituzionali che, realizzando con adeguati supporti tecnici, informatici, un’adeguata informazione, nonché la giustificazione sociale e politica; investa di petto i governi, le burocrazie e i sistemi politici. Concretizzi nuove, originali forme di governo atte a gestire il nuovo ordine postindustriale. Sarà infatti inutile cercare di rabberciare i sistemi attuali con modifiche superficiali e parziali. L’esito della biforcazione dovrà forzatamente essere la totale riprogettazione di tali sistemi vuoti, che ognuno può riempire col significato preferito.

Se allo stato attuale non abbiamo una democrazia degna di questo nome, e se siamo alla mercé di pochi capipopolo, la colpa è solo nostra, perché:

  • siamo noi che sosteniamo e legittimiamo questo sistema col voto;
  • siamo noi elettori ad essere divisi in tutto, quindi privi di reale peso politico; 
  • siamo noi cittadini che, non sapendo fare altro che litigare tra di noi (a partiti contrapposti), dimostriamo di aver bisogno di capi, soggetti che con la democrazia non c’entrano nulla.
  • «O ventimila sammarini, o la barbarie!» sostenevano don Milani, e don Giussani, e la sovranità dei popoli (cioè dell’«io») in una previsione del 1966, poiché loro intuirono con largo anticipo gli effetti disastrosi del mondialismo. Infine un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore

    Enzo Trentin

    vicenzareport.it

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