Impegno e coerenza dell’indipendentismo veneto

Vicenza – Sono favorevole all’autodeterminazione di tutti popoli; quello veneto compreso naturalmente. Tuttavia in seno all’indipendentismo marciano ci sono idee molto diverse. Ma in democrazia, come suggeriva Socrate, è necessario discutere avendo la modestia di non pretendere a priori d’aver ragione. E laddove alcuni pseudo indipendentisti che non godono del mio apprezzamento dimostrassero che io ho torto, tutti ne usciremmo arricchiti e non sconfitti. Ciò premesso, argomenterò sugli auto certificati e spurii indipendentisti veneti prendendo a pretesto un aneddoto personale.

A una conferenza propedeutica sulla migliore strategia aziendale, tenutasi con il patrocinio e presso la sede di una delle banche popolari venete oggi passate alla cronaca per aver messo in serie difficoltà circa 220.000 risparmiatori autoctoni, ho assistito a un chiaro esempio dell’uso protettivo della coerenza.

La riunione era presieduta da due giovani volenterosi che cercavano di reclutare nuovi adepti, vantando le miracolose capacità della loro tecnica promozionale e propagandistica: seguendo il loro programma si potevano ottenere i più diversi successi, ivi compresi quelli imprenditoriali.

Ero andato per osservare il tipo di tattiche persuasive usate in queste conferenze di promozione e avevo portato con me un amico interessato all’argomento, un professore universitario specializzato in statistica e logica simbolica. Via via che il tempo passava e i due conferenzieri spiegavano le basi teoriche dell’azione, mi accorsi che il mio collega diventava sempre più irrequieto. Si agitava continuamente sulla sedia con aria infelice e alla fine non resisté più: al termine dell’esposizione, all’invito rivolto al pubblico di fare domande alzò subito la mano e in due minuti, in modo garbato ma fermo, demolì tutte le argomentazioni, indicando con precisione dove e perché erano contraddittorie, illogiche e insostenibili. L’effetto sui due conferenzieri fu disastroso. Dopo un silenzio imbarazzato, tentarono entrambi una debole replica, fermandosi però a metà e ammettendo infine, dopo un breve conciliabolo, che le osservazioni del mio amico erano apprezzabili e “meritavano un approfondimento”.

Più interessante dal mio punto di vista fu però l’effetto sul resto del pubblico. Appena finite le domande, i due relatori furono avvicinati da quattro o cinque imprenditori che diedero loro il proprio biglietto da visita, pregandoli di contattarli per fissare un appuntamento presso la propria azienda. Stringendosi nelle spalle, ridacchiando e dandosi di gomito mentre intascavano i biglietti da visita, i due tradivano un’enorme sorpresa: dopo quello che era parso un fiasco irrimediabile della conferenza, la riunione si era risolta chissà come in un grande successo, con uno strabiliante consenso di parte del pubblico. Ero un po’ perplesso, ma per il momento attribuii questa reazione al fatto che non avessero capito i ragionamenti del mio collega. Risultò invece che era vero l’opposto.

Usciti dalla sala di riunione, fummo avvicinati da tre persone che subito dopo la conferenza si erano affrettate a richiedere il colloquio. Ci chiesero perché eravamo venuti: glielo spiegammo e facemmo anche a loro la stessa domanda. Uno era un produttore di abbigliamento con un disperato bisogno di sfondare: era venuto per vedere se quei relatori avrebbero potuto servirgli ad ottenere un indispensabile aumento delle vendite, cosa che i due presentatori ovviamente gli avevano garantito. Un’altra era una donna che soffriva per il fatto che quando si presentava in banca per un finanziamento, l’istituto di credito non la considerava affidabile malgrado le garanzie sostanziali che poteva esibire. Il terzo era un attivista politico. Anche lui aveva un problema: col lavoro che faceva non trovava il tempo per preparare gli esami universitari, e con le tecniche proposte dai due relatori sperava di poter ridurre le ore dedicate alla politica (senza perdere, ovviamente, vantaggi e rendite politiche), per poterne dedicare qualcuna di più allo studio. Fra parentesi, è interessante notare che i due conferenzieri avevano assicurato sia a lui che alla donna che la tecnica era in grado di risolvere i rispettivi problemi, benché diametralmente opposti.

Ancora convinto che i tre avessero abboccato perché non avevano capito le osservazioni del mio collega, mi misi a interrogarli in proposito e con sorpresa mi accorsi che le avevano capite fin troppo bene. Era stata proprio la sua argomentazione così stringente a spingerli a mettersi immediatamente nelle mani di quei consulenti. Il giovane attivista fu quello che chiarì le cose nel modo migliore: «Non avevo veramente intenzione, quest’oggi, di impegnarmi nell’ovvia spesa che i consulenti comporteranno, perché sono proprio al verde. Volevo aspettare fino alla prossima riunione. Ma quando il suo amico ha cominciato a parlare, mi sono reso conto che facevo meglio ad impegnarmi subito, altrimenti sarei andato a casa e mi sarei messo a pensare a quello che aveva detto e alla fine non ne avrei fatto più nulla».

Ecco che le cose cominciavano ad avere un senso. Queste persone avevano dei problemi molto reali e cercavano disperatamente un modo per risolverli. Se si doveva prestar fede ai due conferenzieri, erano persone che avevano trovato una soluzione possibile. Spinti dal bisogno, volevano assolutamente credere che questa fosse la risposta che cercavano. Ma a questo punto per bocca del mio amico si era fatta sentire la voce della ragione capace di dimostrare l’infondatezza teorica della soluzione appena scoperta. È il panico. Ci vuole subito una difesa contro gli attacchi della logica che minaccia di rovinare anche quest’ultima speranza. Ci vuole un rifugio sicuro dove il pensiero non possa molestare, e non importa se il rifugio è magari un po’ sciocco. L’impegno che avrebbero preso con i consulenti, ha consentito loro di mettersi in salvo e di non pensarci più: la decisione era presa e d’ora in avanti per fugare i dubbi basterà mettere in funzione il programma automatico della coerenza con gli impegni assunti. Almeno per qualche tempo, si potrà riposare nell’illusione di aver trovato una risposta.

Se l’automatismo della coerenza funge da difesa contro le insidie del pensiero, non dobbiamo meravigliarci che questo meccanismo possa essere sfruttato da certi profittatori che hanno tutto l’interesse a una nostra risposta automatica e non ragionata. Queste persone sono così brave a predisporre le cose in maniera da far scattare in noi la molla della coerenza cieca, che raramente ci accorgiamo di essere caduti in trappola. Ma debbo confessare che ne ho avuto la certezza solo dopo che occasionalmente ebbi a leggere un libro di Robert B. Cialdini: «Influence – How and why people agree to things» © 1984 William Morrow and Co., New York, 1984, che al capitolo 3: “Impegno e CoerenzaGli spauracchi della mente”, descriveva un aneddoto molto simile.

Orbene, prendiamo ad esempio quell’attivista politico preoccupato. Se in Italia fare il “rappresentante” politico nelle istituzioni non fosse una professione, egli non avrebbe avuto alcuna ansia. Al contrario fare politica altrove è un servizio alla collettività, non una professione. Per esempio: i 246 membri del Consiglio nazionale e del consiglio degli Stati della CH dedicano al mandato parlamentare una parte del proprio tempo di lavoro. Generalmente oltre al ruolo di parlamentare, svolgono anche una attività professionale. Il fatto di assumere compiti e mandati pubblici in quanto attività accessoria viene definito in Svizzera ”sistema di milizia”. Lo si può constatare su www.admin.ch a pagina 30 dell’opuscolo “La Confederazione in breve. 2014”. 

Analogamente se il “servizio” politico non fosse svolto “professionalmente” i cittadini non avrebbero l’alibi di aver votato un “rappresentante” (in tal modo sentendosi a posto con la propria coscienza) che poi si sente svincolato da qualsiasi mandato. Come sancito dall’Art. 67 della Costituzione. Questo atteggiamento potrebbe essere accettabile laddove all’elettore fossero concessi gli istituti di partecipazione popolare o di democrazia diretta. Ma questo purtroppo non è; dunque chi vota si spoglia della propria “sovranità” e concede un mandato in bianco all’eletto. Eppure, attraverso gli strumenti della democrazia diretta potremmo agire con deterrenza nei confronti di ogni possibile deviazione del “rappresentante”. 

Non sorprende, quindi, che ci siano esponenti politici che si definiscono indipendentisti (qui mi limito ai soli veneti), che posticipano la presentazione di una proposta di diverso assetto istituzionale. E la domanda è: come può un popolo seguire chi non gli mostra la giusta strada? Di più: come ci si può affidare a cuor leggero a chi si propone d’imitare modelli non felicemente sperimentati? 

Per esempio: già il 21 gennaio 2013, in un’intervista ad un veneto trasferitosi per lavoro a Barcellona, scrivevo: «In questi ultimi tempi stanno arrivando molti nodi al pettine e di conseguenza molte pressioni su problemi sinora irrisolti, ivi compresi innumerevoli casi di corruzione rimasti sinora sotto traccia. Da ricordare, per esempio, il caso del palazzo della musica di Barcellona, collettore di decine di milioni di Euro di tangenti, tanto che il partito CiU su richiesta del giudice Jose Maria Pijoan Canadell ha dovuto dare in garanzia l’edificio sede del suo partito. Un’altra questione è relativa ai finanziamenti dell’UE destinati alla riqualificazione professionale, ed invece confluiti ad una componente di CiU, e cioè Union democratica, l’equivalente della DC italiana. E l’elenco potrebbe continuare.» 

In questo quadro, come si fa a pensare che conquistando la maggioranza alla Regione Veneto, si potrà poi trattare l’autodeterminazione del popolo veneto concertandola con lo Stato italiano? Non è noto a questi pseudo indipendentisti veneti che la Catalogna, malgrado la loro maggioranza nella Generalitat de Catalunya, e alcuni parlamentari indipendentisti siedano nella Cortes Generales di Madrid non hanno ottenuto nulla, ed anzi rischiano   una riduzione dell’autonomia regionale?   

Recentemente sulla rivista «MiglioVerde», Marietto Cerneaz ci ricorda che quando Pedro Sanchez detronizzò Mariano Rajoy, con un “colpo di palazzo” riuscito grazie anche all’appoggio degli indipendentisti catalani, tra lui, il suo partito e i secessionisti era tutto rose e fiori. Poi, è caduto anche il suo governo, che si reggeva come fosse un castello di carte quando soffia il vento. Ora con la vittoria con un certo margine di vantaggio del Psoe alle elezioni, Sanchez pare voglia vendicarsi dello sgarbo degli indipendentisti, che nello scorso mese di Febbraio non hanno votato il suo bilancio, facendo cadere il governo.

Guardare all’UE che difende i diritti umani sembra alquanto bizzarro, considerato che non ha fatto un fiato a favore di numerosi esponenti indipendentisti in carcere da oltre un anno e mezzo solo per aver cercato di rispettare un preciso mandato. Infatti in campagna elettorale dichiararono che, se eletti, avrebbero indetto un referendum per l’indipendenza della Catalogna. Semmai è interessante osservare che, malgrado le ampie autonomie, gli indipendentisti non hanno superato il 47% dei consensi elettorali, ed oggi alcuni sondaggi danno tale adesione al 37%. 

Tra le autonomie catalane che nessun commentatore sembra prendere in considerazione c’è quella del Dipartimento di giustizia della Generalitat della Catalogna, attraverso il Segretario delle misure criminali, la reintegrazione e l’attenzione alle vittime. Questo ufficio è responsabile della definizione della direzione dell’esecuzione criminale in Catalogna e dell’attuazione delle proposte, piani e programmi per la sua esecuzione. La Catalogna è l’unica comunità autonoma spagnola che ha trasferito poteri giurisdizionali e la gestione delle carceri dal 1° gennaio 1984, e quindi coordina e supervisiona l’attuazione delle politiche in questo campo. 

Per questo non va trascurata l’«affezione» con la quale i leaders indipendentisti imprigionati sono trattati, considerato che essi non subiscono certo un trattamento analogo a quello di Bobby Sands, che è stato un attivista e politico nordirlandese, volontario della Provisional Irish Republican Army. Eletto membro del parlamento britannico mentre era detenuto nel carcere di Maze, a Long Kesh, ivi morì il 5 maggio 1981 a seguito di uno sciopero della fame condotto ad oltranza come forma di protesta contro il regime carcerario cui erano sottoposti i detenuti repubblicani.

Dulcis in fundo: l’indipendentismo catalano, almeno dal 1980, beneficia di innumerevoli vantaggi competitivi sconosciuti ai veneti: non solo ha la maggioranza nella Generalitat, ha propri Sindaci in circa 600 dei 900 Comuni della regione. Dalla Generalitat dipendono i Mossos d’Esquadra o Policia de la Generalidad. La peculiare cultura catalana è istruita in tutte le Università autoctone, in un canale televisivo specifico, in decine e decine radio locali (quasi una per ogni Comune di medio-grandi dimensioni), nonché in alcuni giornali e periodici sia a stampa che on line. Ciò nonostante, i catalani favorevoli all’indipendenza non hanno superato la maggioranza degli aventi diritto. E questo porta necessariamente ad una riflessione sulla qualità dei rappresentanti politici catalani, che sono cosa diversa dal loro popolo.

Per concludere ecco che similmente a quelle persone che decisero di affidarsi ai due giovani volenterosi di cui all’aneddoto d’apertura, ci sono degli elettori disposti ad affidarsi a dei sedicenti indipendentisti che, godendo di rendite politiche come rappresentanti dello Stato italiano in Regione Veneto (e per ciò stesso avendo giurato sulla vigente Costituzione), lasciano intendere al pubblico più credulone che il governo italiano potrebbe comportarsi diversamente dal governo spagnolo. Ed è a questo punto che mi domando se per caso non avesse ragione il Mahatma Ghandi laddove diceva: «Sotto un governo ingiusto, ogni persona decente dovrebbe essere prigione.»

Enzo Trentin

vicenzareport.it

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