Politica, c’è bisogno di una rivoluzione 

Vicenza – Un vecchio giornalista del secolo scorso, di volta in volta veniva invitato dal suo editore a far da mentore agli allievi che volevano intrapprendere la professione. L’anziano al primo incontro con l’apprendista esordiva così: «Ti darò la prima lezione subito, ragazzo mio: niente è mai quello che sembra, e nessuno è mai chi dice di essere. Incìditelo nel cuore.» 

Vale anche per la parola rivoluzione, un vocabolo dai molti significati. In questo contesto ci limiteremo a questa definizione: mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici. In senso stretto, il processo rapido, e per lo più violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente e di stabilire un nuovo ordinamento. 

Mao Tse-Tung era uno che di rivoluzioni se ne intendeva; in un suo aforisma scrisse: «La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza.» Tuttavia, allo stato attuale, la violenza è uno strumento abbondantemente elargito dagli Stati, non dai cosiddetti rivoluzionari. Basti pensare all’«educazione del pubblico» (vale a dire la propaganda) e la disapprovazione associata al fatto di essere politicamente scorretti.

Si guardi alla Spagna, spalleggiata dall’intera l’Ue, che ha fatto duramente manganellare dai suoi sbirri i propri cittadini che in Catalogna avevano solo il desiderio di votare. Di auto determinarsi. Nessun “rivoluzionario” catalano è ricorso a soperchierie tali da giustificare la repressione. E qui è bene osservare che non tutte le rivluzioni sono violente. Si pensi alla Cecoslovacchia: il 31 dicembre 1992 si sciolse la federazione precedente dando vita alla Repubblica Ceca e alla Repubblica Slovacca. E questo pacificamente per mezzo di un apposito referendum. Questa operazione passò alla storia con il nome di Rivoluzione di Velluto. 

Eppure persino il pensiero cattolico, a certe condizioni, giustifica la violenza. Quanto c’è veramente di “inaccettabile” nel comportamento di un leader politico che persegue l’antidemocratico fine dell’asservimento di un popolo? Per dirla con San Tommaso d’Aquino, «l’essenza della tirannide si esprime nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi… Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno va lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi o estorcendo loro il consenso… Tutto ciò, quando non è possibile il ricorso ad una istanza superiore, costituisce una giustificazione» al porre termine anche con la violenza alla tirannia. Già, perché «chi sfugge alla giustizia nei tribunali deve attendersi di trovarla nelle strade», affermava Cicerone, il quale diceva anche che «facciamo la guerra a coloro contro cui nulla può la legge.» 

Ciò nonostante oggi in Europa nessuno pensa all’esercizio della violenza rivoluzionaria. E per dirla con Carl Schmitt: «in uno stato di cose in cui la decisione di terminare l’oppressione è superiorità alla validità della norma legale, la decisione si libera da tutti i legami normativi e diventa nel vero senso assoluta.» Agendo da “golpisti” e contro la tirannia, civili e/o militari «sospendono la legge sulla base del suo diritto di auto conservazione» dello Stato di diritto. 

Insomma, partendo dalla constatazione che il nostro Paese ha inaccettabili inefficienze in ogni sua componente, che è dominato da una sindacal-partitocrazia avida, improduttiva, e costantemente in campagna elettorale, c’è bisogno di una rivoluzione. Ovvero un mutamento radicale dell’ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici. In senso stretto, un processo rapido, ma non necessariamente violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente, e di stabilire un nuovo ordinamento. 

In “Formicai, imperi, cervelli” (edito da Bollati Boringhieri) Alberto Gandolfi sostiene che la biforcazione che si avvicina all’orizzonte investirà di petto i governi, le burocrazie e i sistemi politici. Nuove, originali forme di governo dovranno essere create per gestire il nuovo ordine postindustriale. Sarà inoltre inutile cercare di rabberciare i sistemi attuali con modifiche superficiali e parziali. L’esito della biforcazione dovrà forzatamente essere la totale riprogettazione di tali sistemi vuoti, che ognuno può riempire col significato preferito. 

Per cercare di uscire dalla spirale del consociativismo sindacal-partitocratico, gli italiani dopo aver sperimentato le più diverse formazioni politiche che più o meno sproloquiavano di federalismo, sono giunti all’idea dell’auto determinazione. Eppure ciò che costituisce l’essenza e il carattere del “contratto federale”, è che in questo “sistema” i contraenti (gli aventi diritto al voto) si riservano individualmente, nel dar vita al contratto, più diritti, libertà e proprietà, di quanta ne cedono ai loro rappresentanti. Ma i rappresentanti, lo abbiamo verificato più volte, non hanno alcuna intenzione di lasciare il potere e i privilegi che essi stessi si auto elargiscono. 

Insomma il problema italiano è strutturale ed è insito nel sistema rappresentativo integrale, che funziona così: il cittadino vota un rappresentante e, così facendo, delega a lui ogni potere decisionale. Risultato: votando, il cittadino si auto esclude da ogni possibilità di decidere. Cosa che è l’opposto del sistema federale. Quello che è assurdo è che lo stesso cittadino che vota spesso si lamenta perché è escluso dal potere decisionale. Non capisce che è proprio lui ad escludersi da quel potere nel momento in cui decide di delegare votando. Se davvero si vuole decidere, dovemmo semplicemente smettere di votare legittimando tale sistema. 

Del resto la democrazia italiana non è certo la tirannia della maggioranza. Cosa paventata da Alexis de Tocqueville. Infatti alle più recenti elezioni regionali (si veda qui) chi è uscito vincitore con l’onere di governare, in realtà rappresenta più o meno un cittadino su quattro. Giusto quanto è successo al Comune di Vicenza la scorsa primavera, ed in molte altre istituzioni… “democratiche”. 

Grosso modo da oltre quarant’anni sono apparsi nella scena politica soggetti che si sono auto definiti prima autonomisti e federalisti, ed oggi indipendentisti. A livello di leader (definizione forse eccessiva) ci sono più o meno sempre le stesse persone, gli stessi “predatori” di rendite politiche. Gente perennemente afflitta dalla necessità di affermazione del proprio ego tramite la carica istituzionale da essi agguantata; piuttosto che da intrinseche qualità umane, intellettuali e politiche. Basta osservare una qualsiasi autorità politica e spogliarla dello scranno su cui è intronata, e cosa ci resterà? Se qualcuno dei nostri lettori non ci crede, abbiamo un ponte a Bassano del Grappa che ci piacerebbe vendergli. Perché la vita politica della penisola è un susseguirsi infinito di “barufe cioxote” portate avanti da scatolettisti abili nel gioco delle tre carte. 

Si tratta perlopiù di persone angosciate dall’idea di non essere rielette. Di dover tornare a lavorare; posto che un lavoro ce l’abbiano mai avuto, e/o che trovino chi gli dà da guadagnarsi il pane quotidiano. Ed ecco allora i disinvolti, i disinibiti, gli spregiudicati, fare a gomitate pur di continuare a gestire il potere. Un proverbio arabo ammonisce: una mezza verità è una bugia intera. Eccone un esempio: i vitalizi ai parlamentari sono frutto di una seduta segreta del 21 dicembre 1954, presenti i parlamentari di tutti gli schieramenti. Nella seduta segreta venne istituito un fondo di previdenza per i vitalizi dei deputati da 425 milioni.

Solo un deputato, Giuseppe Veronesi, criticò la procedura segreta e si dimise: «La povera gente – scrisse in una lettera – ha bisogno di buone leggi e buoni esempi». Ma alla Camera non ci fu nessun dissenso sulla misura. I parlamentari si limitarono a respingere le dimissioni del parlamentare. Bene! Chi dice la mezza verità dei vitalizi ‘aboliti’? Si veda qui.  Tutti i più diversi candidati alle elezioni amministrative, politiche o europee che chiedono il voto per essere legittimati a imperversare con l’aggravio di tasse a fronte delle più inconcepibili inefficienze non sono credibili. E non lo sono in particolar modo coloro che sono sostenuti dalla cosiddetta stampa mainstream. Da qualcuno definita stampa igienica. Nessuno si sforza di innovare radicalmente.

Buckminster Fuller sosteneva: «Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta». Ma anche tra i sedicenti indipendentisti non si trova un progetto istituzionale credibile, condiviso e innovativo. Chiedono il voto per rappresentarci, ma quando pretendiamo qualcosa da loro si dimostrano privi dell’imperativo morale, e subito corrono ad acquattarsi dietro all’art. 67 della Costituzione che sancisce come il mandato si esercita senza vincolo. Si veda qui e qui. La nostra modesta opera d’informazione assomiglia a quella storiella leggera e ammonitrice che suggeriamo di leggere qui. Poiché a queste condizioni coloro che in buona fede si accingono a votare rappresentanti della qualità che abbiamo cercato d’illustrare, altro non farebbero che legittimare i proprio “padroni”. 

Enzo Trentin 

vicenzareport.it

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